“Mercordì 9 Giugno 1683.

Dovendo questa Mag.ca città far costruire un portone alle Scuole publiche nella Contrada del SS. Crocefisso, dove al … si alza un muro per chiuder da quella parte la fabrica delle scuole stesse, e dell’abitatione de P.P. Maestri Barnabiti della forma, che apparisce nel dissegno fatto da M.o Fran.co Maierone, sono gli Ill.mi SS. Deputati tutti sette essistenti nel solito loro Auditorio, facendo in nome pubblico della Città stessa devenuti al seguente accordo con Gasparo Tomasonich taglia pietra, ciò è

Il medesimo Tomasonich per se … s’obbliga dio dar fatte lavorate di tutto punto e condotte nel luogo dell’opera nel termine di giorni quarantaquattro prossimi tutte le Pietre che devano componer il sudetto Portone dalla Cornice esclusive in giù, ciò è trenta Bugne tra grandi, e piccole, due Paracarri, due mensole, la chiave nella parte superiore del volto, el soiaro, il tutto di Pietra di Faedis di buona qualità non terriccia, ma soda, sana, bella, e d’un sol colore.
Le Bugne, mensole, chiave, e Paracarri doveranno esser della lunghezza, et altezza, che resulta dall’antedetto dessegno, secondo la scalla posta a Piedi del medesimo, e di larghezza nel piano di cadauna d’esse Pietre dove s’hanno da congiunger insieme di once diecisette, compresa anca quella parte delle Bugne che spira in fuori.

Il soiaro doverà esser al più di due pezzi, e longo tanto che si estenda da un capo, e dall’altro un piede sotto dei paracarri, alto onze sei , largo onze diecisette.
Le Bugne doveranno esser di Pietra lavorata alla Rustica; le mensole, chiave, e paracarri di pietra battuta, et in mezzo alla chiave doverà esser intagliata l’Arma della Città con rimesso negro fregato, e lustrato nello scudo della medesima in quella parte dove richiede tal colore.

Li Ill.mi SS. Deputati all’incontro promettono, e s’obbligano in pagamento delle medesime pietrelavorate, e condotte come sopra di dar al detto Tomasonich presente, et accettante Ducati cinquantacinque di Z. 6114 l’uno, mentre però le dia condotte, e lavorate di tutto punto nel termine premesso di g.ni 44; essendo … con questa espressa conditione condescese al medesimo prezzo, ma protrahendo detto tagliapietra lo stesso lavoro non sia tenuto al Publico di dargli, che soli Duc. 50 pur di Z.  6114.

& per l’osservanza e manutenzione delle cose premesse, obligarono Gli Ill.mi SS. Deputati li Beni della Città, et Tomasonich li suoi propi di cadauna sorte presenti e venturi.

Presenti l’Egr, … Gioseffo Tracanello, et … Gio. … Colloredo Porta lettere da Mare…”291.

Il contratto stipulato il 9 giugno 1683 tra i Deputati della Città e il tagliapietra Gasparo Tomasonich fornisce un sorprendente spaccato della realtà cittadina alla fine del Seicento: le scuole pubbliche dei Padri Barnabiti, istituite nel 1679, abbisognano di un portale di accesso nel muro di cinta (via Ginnasio Vecchio 13, L0112); la Città si impegna per la sua realizzazione in tempi brevissimi. L’opera è commissionata secondo un disegno esistente, vengono specificate le lavorazioni della pietra, le dimensioni, i dettagli funzionali
292 e decorativi non visibili nel disegno fornito, così come i materiali.

Le poche pagine sintetizzano la conoscenza condivisa delle figure professionali (l’ideatore, il tagliapietre), dei termini costruttivi (bugne, chiave, cornice, soiaro), delle tecniche di lavorazione della pietra (alla rustica, in pietra battuta), delle tecniche accessorie (con rimesso
293 negro fregato, e lustrato nello scudo), dei tempi di lavorazione (44 giorni).

L’aulicità del testo non riesce a nascondere una consuetudine con l’opera e le persone
294, pur nell’osservanza dei ruoli, possibile allora in una città di poco più di 10000 abitanti, secondo una tradizione costruttiva di millenni.




































































291
Biblioteca Comunale di Udine, Archivio Comunale di Udine (1683-1684), 101v, 102r, 102 v, 103 r: disegno nell’Archivio Comunale di Udine, D. XXIV, c.14.r. Indicazione puntuale dell’esistenza del documento e copia del disegno citato sono il L. Da Lio, Il portale a Udine tra il XV e il XVIII secolo. Tipologie e materiali, 1995.

292
Particolarmente interessante è il riferimento puntuale alle caratteristiche della soglia (il “soiaro”, cfr. E. Concina, Pietre, parole, storia, 1988, p. 137, ivi indicato come “sogiar”, “sogier”, “soier”).

293
Il rimesso indica una tarsia in altro materiale; cfr. E. Concina, Pietre, parole, storia, 1988, p. 124, ivi indicato come “remesso”.

294
“La connaissance des qualitès des pierres fasait d’ailleur partie des traditions populaires. Dans Gargantua, Rabelais raconte «Comment Pantagruel défit les trois cents geans arnés de pierre de taille et Loupgarou leur capitaine. Ce fut quand Pantagruel en abatit un qui avait nom Riflandouille qui estoit armé à l’hault appareil, c’estoit de pierres de gryson, dont un esclat couppa la gorge tout oultre à Epistemon, car autrement la pluparte d’entre eux estoient armés à la légière, c’estoit de pierre de tuffe et de pierre ardoisine».” Cfr. A. Mussat, La rivière et la carrière: l’example des Pays de Loire, in J. Guillaume (a cura di), Le chantiers de la Renaissance, 1991, p. 16.



LE MAESTRANZE

Diverse maestranze con specifiche competenze risultavano occupate nell’estrazione e nella lavorazione delle pietre nelle cave friulane, giuliane e istriane, secondo una divisione dei compiti sopravvissuta fino all’avvento delle macchine operatrici di cava e di laboratorio.

All’interno della cava erano definiti livelli diversi di competenza: dal responsabile della cava, ai cavapietre, agli sbozzatori di cava, ai garzoni.
Si trattava generalmente di persone del posto, che, di generazione in generazione, hanno tramandato per secoli il proprio mestiere a figli e nipoti
295.

I cavapietre erano i manovali impegnati, in primo luogo, al momento della definizione di una nuova area di sfruttamento, nell’allestimento del fronte di cava, con l’eliminazione del primo strato superiore di materiale deteriorato dagli agenti atmosferici, il cappellaccio, per secoli con il solo lavoro di pala e piccone
296.

Lo sfruttamento della cava avveniva poi, sempre compito dei cavapietre, secondo diverse modalità di estrazione dei blocchi, in funzione della configurazione stratigrafica dell’ammasso coltivato, delle caratteristiche della pietra, del periodo; esclusivamente con l’uso di cunei, piccone, leve, prima, con l’introduzione dei fili elicoidali, a partire da fine Ottocento
297.

Si trattava, nella maggior parte dei casi, di un vero e proprio sezionamento dell’ammasso roccioso, a pozzo per lo sfruttamento dal piano campagna
298, secondo un fronte di cava, per lo sfruttamento della falda di un rilevato299.

In presenza di forti discontinuità nella roccia l’estrazione avveniva per mobilitazione di grossi blocchi naturalmente definiti, con l’impiego di leve, pale, argani, funi
300.

Il lavoro dei cavapietra continuava con la divisione dei blocchi con cunei e mazze, eventualmente per segagione (effettuata con lame metalliche lubrificate con sabbie quarzose e acqua), in elementi di dimensioni ridotte, con la frantumazione degli scarti di estrazione dei blocchi.

Compito più delicato, affidato a maestranze specializzate, gli sbozzatori di cava, la sbozzatura dei blocchi secondo forme regolari, con l’impiego di sola mazza, di mazza e scapezzatore (attrezzo metallico con un’estremità piana, atta ad accogliere il colpo della mazza e l’altra appiattita e tagliente), di mazza e subbia (attrezzo metallico con un’estremità piana, atta ad accogliere il colpo della mazza e l’altra appuntita).


La distanza dai luoghi abitati, la difficoltà nel raggiungimento delle vie di comunicazioni, in prevalenza effettuato su slitte o robusti telai in legno (le lizze), lungo percorsi opportunamente approntati, per gravità, con l’uso di funi, leve, e della sola forza degli uomini addetti, i “lizzatori”, e i costi di trasporto fino al luogo di utilizzo condizionavano fortemente la preparazione dei blocchi da movimentare, riducendo al minimo i pesi superflui.

Difficilmente il blocco veniva ulteriormente lavorato, causa i possibili previsti danneggiamenti durante le fasi di trasporto
301.


A questo punto il blocco poteva venir preso in consegna, quando non dagli impresari dediti al commercio delle pietre, dai proti della fabbrica da erigersi o dagli stessi tagliapietra, gli artigiani che si sarebbero occupati della sagomatura finale, cui, per contratto, potevano competere anche gli oneri di trasporto del materiale
302.

Il trasporto avveniva su carri
303, nelle condizioni più disagevoli, o via acqua, permettendo, in questo caso, il superamento di distanze consistenti304.



Compito degli scalpellini, detti anche “tagliapietre”, prevalentemente con bottega nei centri abitati
305, era la riduzione dei blocchi sbozzati in cava nelle forme richieste.

Anche in questo caso il lavoro si tramandava di padre in figlio
306, pur contemplandosi, ovviamente, la possibilità del garzonato,  soprattutto nei centri di maggiori dimensioni, in cui le botteghe assumevano dimensioni consistenti.


Come tutte le arti, anche quella degli scalpellini era tutelata dall’esistenza di corporazioni, a tutelare gli interessi della categoria, dei membri in condizione di bisogno, la qualità del lavoro, a limitare il danno derivante dalla concorrenza di lavoratori “foresti”.

Nonostante il definirsi delle corporazioni dei mestieri sia di norma databile al tardo Medioevo
307, a Venezia, per esempio, lo statuto dell’arte degli scalpellini risale al 1307308, “… in Friuli, a differenza di altre regioni italiane, fino a tutta l’età patriarchina le fraterne di mestiere non assumono carattere corporativo, proponendosi finalità prevalentemente religiose e di solidarietà, aggregando tra l’altro lavoratori di settori diversi. …soltanto in età veneta … le fraterne di mestiere assumono una precisa fisionomia in senso corporativo, aggregando gradualmente artigiani della medesima arte … Nel 1539 Venezia aveva, infatti, ordinato che artigiani e bottegai dovessero appartenere a una corporazione …”309.

Attiva a Udine, la Fraterna dei SS. Sebastiano e Fabiano, eretta nella chiesa di S. Francesco con statuti formulati il 21 febbraio 1496, che inizialmente comprendeva marangoni e murari, aperta dal 1724 ai tagliapietre, e la Fraterna di S. Lucia e S. Omobono, la cui costituzione è fissata al 1370 presso la chiesa di S. Lucia
310, che, se pur non esplicitamente riservata ai tagliapietre, vide l’affiliazione di molti di essi fin dal Cinquecento311.


Similmente alla bottega veneziana
312, sebbene in dimensioni ridotte, il lavoro era organizzato secondo una gerarchia definita dal maestro, dal lavorante e dal garzone, con rigidi passaggi obbligati tra i ruoli sanciti dagli statuti della confraternita313.

L’appellativo di maestro veniva raggiunto, dopo opportuno apprendistato, con il superamento di una prova pratica
314. A quel punto lo scalpellino assumeva una dignità professionale, che ne permetteva l’ingresso nella corporazione, diventando, nel contempo, un soggetto giuridico, responsabile del lavoro aggiudicato, comprensivo, similmente a quanto avveniva per i maestri muratori del rinascimento, “dell’organizzazione della forza-lavoro subalterna e del compenso dei dipendenti”315.


All’interno della bottega erano definite diverse competenze, al fine di ottimizzare le fasi e i tempi del lavoro: lo scalpellino generico, lo scalpellino ornatista, lo scultore, lo scalpellino incisore.


Compito dello scalpellino generico era la realizzazione di elementi architettonici semplici (bugne, mostre di porte e finestre, soglie, gradini), dello scalpellino ornatista quella dei profili architettonici, dello scultore quella di elementi decorativi di un certo impegno, stemmi e mascheroni, per esempio, nel caso dei portali, dello scalpellino incisore quella delle incisioni di lettere o motivi ornamentali, con fusione di piombo nei precisi solchi tracciati.

Mentre i lavoranti apprendevano l’arte, realizzando concretamente le opere, al punto che spesso lavori della scuola vengono attribuiti al maestro, cui competeva la responsabilità della bottega
316, ai garzoni erano affidati i lavori ripetitivi necessari al corretto funzionamento della bottega.

Tra i tanti, la cura dei ferri da lavoro, con la sagomatura delle parti consumate, l’apprendimento del loro rinvenimento per forgiatura: ogni bottega, infatti, era dotata di una propri fucina, rendendo completamente autonomo il lavoro degli scalpellini da quello dei fabbri.

















































































































































































































































































295
In assenza di lavoro sul posto, molti dei “cavapietre” e degli scalpellini friulani hanno seguito diverse strade di emigrazione. Tra le tante storie di fatica, motivo di orgoglio per la comunità di Meduno, nel Pordenonese, l’affermazione professionale di Luigi Del Bianco (1892- 1969), a capo delle squadre di scultori del famoso «Mount Rashmore Memorial» nel South Dakota (USA). Cfr. [s. a.], Omaggio ai lapicidi di Meduno, 1996, p. 5.

296
“Quel giorno il capo Argante Gattini ci chiamò a rapporto subito dopo colazione. «Voi – disse puntando il dito su Carle, Bepino, l’Altro Carle, me e Garlio – formerete una squadra che dovrà scoperchiare il monte per liberare il nuovo filone. Ci vorrà più di un mese ma poi avremo marmo ancora per anni.» Non mi dispiaceva starmene un mese intero assieme agli amici e al simpatico Garlio. L’unico cruccio era che non avrei più potuto fare lo scalpellino, arte in cui ero riuscito ad avere una qualifica come gli specialisti Nanìn de Raci, Cice Caprin e Piaruci. Lo stesso giorno che il capo ci convocò, iniziammo a togliere il cappello alla montagna per liberare il filone. Si trattava di rimuovere una gobba di terra bislunga, che pareva un transatlantico. Tutto da rosicciare a piccone e carriola. Solo a guardare quella collina ci cadevano le braccia. Altro che un mese! Ne impiegammo tre. … Sbadilare tutto il giorno rompeva la schiena ma era un lavoro semplice e non richiedeva precisione o attenzioni particolari come giù in cava”, M. Corona, Nel legno e nella pietra, 2003, pp. 230-231. I ritmi della rimozione del “cappellaccio si sono ripetuti inalterati nei millenni fino agli anni Sessanta, senza distinzione di luoghi, in questo caso la cava di marmo del Monte Buscada, nelle montagne dell’Ertano, a nord di Pordenone. L’asportazione del cappellaccio poteva essere condizionata dal ritmo delle stagioni; “Au sommet de la colline, dès l’automne, on décape la «decouverte» pour mettre à jour la bonne masse, de manière à extraire la pierre di printemps à l’été”; cfr. M. Vitale, La pierre dans la construction des ouvrage d’art, 1941, p. 14. Il ritmo delle stagioni regolava il periodo di estrazione (primavera ed estate), ma anche le modalità di chiusura della cava: nel caso delle cave di Aurisina, causa la gelività della pietra, si rendeva necessario proteggere il fronte di cava con balle di paglia durante l’inverno.

297
Le diverse modalità di estrazione dei blocchi e gli attrezzi impiegati vengono ampiamente descritti in tutti i testi sulla lavorazione della pietra, sia a carattere storico, che applicativo. Di riferimento obbligato: A. Scarzella, Il marmista, 1923; P. Rockwell, Lavorare la pietra, 1989; C. Varignoli, La materia degli antichi edifici, in G. Carbonara (a cura di), Trattato di restauro architettonico, pp. 303-351.

298
È il caso delle cave, ad esempio, del Rosa del Portogallo nell’area di Braganza (P).

299
Meno frequente lo sfruttamento di un ammasso roccioso in galleria, noto, nella storia, per le cave di Siracusa, in regione applicato nella Cava Romana di Aurisina.

300
È il caso dell’estrazione della pietra piasentina, con massi di dimensioni compresi tra i 10 e i 15 mc. L’uso della forza è stato oggi sostituito dall’azione delle macchine operatrici, escavatori e pale meccaniche, che con maggior facilità mobilitano queste enormi masse di alcune decine di tonnellate. Pietra piasentina e pietra d’Aurisina non presentano, peraltro, le marcate discontinuità, parallele ai piani di sedimentazione, caratteristiche della pietra vernadia e della pietra d’Istria e che definiscono lo spessore del banco sfruttato: “Chaque carrière, chaque banque d’une carrière donné, a donc des dimension-types qu’il est obligatoire de connaître avant tout project”, cfr. M. Vitale, La pierre dans la construction des ouvrage d’art, 1941, p. 15. Se la dimensione dei banchi di pietra d’Istria può raggiungere il metro di spessore, per la pietra vernadia questo è compreso tra i 2 e i 20 cm. Tutte le notizie relative all’estrazione e alla lavorazione della pietra in Friuli, quando non diversamente specificato, sono state cortesemente indicate dal signor Italo Bulfone.

301
Della lizzatura si parla con rispetto e timore, da sempre, per il pericolo continuo di vita corso dai lizzatori. Comune è il riferimento ai lavori nelle Alpi Apuane per il trasporto del marmo di Carrara dalle cave ai moli di consegna (cfr., p. e, A. Scarzella, Il marmista, 1923, pp.113-115). Le fasi delle lizzatura della pietra d’Istria, descritte in dettaglio da Vincenzo Scamozzi, vedevano l’impiego anche di animali da fatica: “Si cavano pezzi di smisurata grandezza e peso, e particolarmente quelli che vengono da Leme, e gli huomini del paese sono molto pratichi, di maniera che li maneggiano con grandissima destrezza, e facilità, poiché le conducono al canale vicino alla marina per spacio d’un miglio, per strade molto pendenti, e con svolte poste sopra alcuni letti fatti di legnami, i quali chiamano paioli, strassini o sbrisse tirate con buoi: e ne’ luoghi difficili, e erti vano misurando, e compartendo il motto del peso con alcuni capi di funi molto grosse, e legate alla parte di dietro de’ letti, e raccomandate poi agli arbori ovvero ad altra cosa permanente, a squaro, come essi dicono, e così procedono di mano in mano secondo il bisogno”, V. Scamozzi, L’idea della architettura universale, 1615, p. 179.

302
Questo compito comportava che alcuni tagliapietre traessero grossi guadagni dal trasporto del materiale, diventando, di fatto, veri e propri impresari. La scelta dei pezzi poteva condizionare il buon risultato dell’opera. È ben noto l’impegno di Michelangelo, già nella cava di estrazione, per la selezione dei blocchi delle sue sculture. Sorprendente, in tal senso, lo schizzo per l’ordine dei blocchi di cava eseguito per le parti architettoniche della chiesa di San Lorenzo; cfr. M. Hirst, Michel-ange dessinateur, 1989, p. 58. Tra i tanti esempi cittadini, interessanti sono gli estremi per il pagamento della pietra d’Istria, datato 6 marzo 1525, per la facciata della chiesa di San Giacomo, sede della Confraternita dei pellicciai: “Maistro josef de lovaria pelisaro fiol qm. Maist.o piero de lovaria come chel ditto Pa luij esser imposto per andar in histria con m.o Bernardin Taja piere protto de la fabrica et qual dal dito M.o Zuane pelizar al ditto ut supra contadi a dj 6 Marzo per pagar la piera Ducati quarantadue da lire sie et soldi quatro per Ducato”, cfr. M. Zocconi, La facciata rinascimentale della  chiesa  di  S. Giacomo Apostolo nella piazza del Mercato Nuovo a Udine, 1960, p. 46.

303
Il signor Italo Bulfone ricordava i viaggi notturni tra Udine e la cava di Torreano, lui giovane ragazzo, con il carro trainato dagli animali, il tutto  per un unico blocco di pietra piasentina, circa 30 quintali in peso.

304
Per quanto riguarda la pietra d’Istria “Il trasporto fino a Venezia veniva poi effettuato via mare con grosse imbarcazioni particolarmente adatte al trasporto dei materiali pesanti, denominate all’inizio “dormoni”, “marani” durante tutta l’epoca della Repubblica di Venezia e “trabiccoli” nella scorso secolo. Il Governo veneziano non amministrava in proprio il commercio della pietra d’Istria, ma lo controllava con leggi severissime e lo stimolava, concedendo anche prestiti agevolati e facilitazioni economiche a tutti coloro che provvedevano alla costruzione di barconi per il trasporto della pietra”. Cfr. M. Dalla Costa, C. Feiffer, Le pietre dell’architettura veneta e di Venezia, 1981, pp. 83-84.

305
Nei piccoli centri, prossimi alle zone di escavazione, il lavoro di finitura dei blocchi poteva essere realizzato anche direttamente in cava, qualora le condizioni successive di trasporto non facessero temere per l’integrità dei pezzi.

306
Si sono venute, così, a creare delle vere e proprie dinastie di scalpellini, gli “spiezapiere”, come quella dei Toffoletti di Tarcento. Cfr. P. Pellarini, Fòdime e spizepiere a Tarcento, 1993, pp. 89-96.

307
Cfr. S. Ferri, G. Matthiae, L. Salerno, Artigianato, in Enciclopedia Universale dell’arte, 1958, vol. I, pp. 800-812.

308
Cfr. M. Dalla Costa, C. Feiffer, Le pietre dell’architettura veneta e di Venezia, 1981, p. 102.

309
Cfr. L. Cargnelutti, I borghi e la città. Organizzazioni vicinali e associative in Udine, secoli XIV-XVIII, 1992, pp. 85-86.

310
Cfr. R. Radassao, La chiesa di Santa Lucia a Udine e le sue confraternite, 2000, p. 83.

311
Cfr. R. Radassao, La chiesa di Santa Lucia a Udine e le sue confraternite, 2000, p. 92-93. Santa Lucia è, tradizionalmente, il santo patrono degli scalpellini di Torreano di Cividale. In effetti uno dei pericoli maggiori del mestiere era costituito dallo schizzare imprevisto delle schegge a colpire gli occhi dello scalpellino, da cui, probabilmente, l’invocazione di protezione da parte della Santa.

312
Cfr. M. Dalla Costa, C. Feiffer, Le pietre dell’architettura veneta e di Venezia, 1981, p. 103.

313
Cfr. L. Cargnelutti, I borghi e la città. Organizzazioni vicinali e associative in Udine, secoli XIV-XVIII, 1992, pp. 153-166. A titolo di confronto si veda, p.e.,  in R. recht (a cura di)., Les Batisseurs des cathedrales gotiques, 1989, pp. 103- 109, lo statuto degli scalpellini di Strasburgo, anno 1459.

314
A Venezia la prova consisteva nella realizzazione di “una base attica che doveva disegnarsi e condursi ad intero compimento, senza sagome e traendola dal disegno. Poi il lavoro era controllato con un modulo in rame”; cfr. M. Dalla Costa, C. Feiffer, Le pietre dell’architettura veneta e di Venezia, 1981, p. 103.

315
Cfr. L. Giordano, I maestri muratori lombardi. Lavoro e remunerazione, in J. Guillaume (a cura di), Les Chantiers de la Renaissance, 1991, p. 166.

316
È il caso di Giovanni Antonio Pilacorte, attivo nel Pordenonese e a Udine nella seconda parte del ‘400 e nella prima del ‘500 (vedi nota 62): “Tutto, o quasi tutto ciò che usciva dalla sua bottega portava la sua firma o sigla e ciò per ragioni prevalentemente pratiche: fu così che l’artista poté farsi conoscere in tutto il Friuli ed è anche grazie alle firme esistenti sulle tante opere realizzate che egli ha potuto rimanere nella memoria dei posteri”, cfr. G. Bergamini, Architetti e lapicidi ticinesi in Friuli nei secoli XV e XVI, 1984, p. 20.
IL PROGETTO DEL PORTALE

È alquanto complesso stabilire i modi del progetto dei portali udinesi per sostanziale mancanza di pochissimi riferimenti documentari.

Il precedentemente citato caso del portale del Collegio dei Barnabiti mostra un disegno esistente e l’appalto dell’opera a un tagliapietre che non è il progettista, altre volte lo stesso tagliapietre fornisce il portale senza espliciti riferimenti a disegni guida
317, evidentemente nel caso di forme consuete, secondo una ripetitività del prodotto talora riscontrabile in città. Per la maggior parte dei portali, invece, resta il dubbio sull’ideatore, come per altro, per il disegno stesso degli edifici. Si pensa, anche in questo caso, all’importanza dei modelli dei manuali in circolazione, degli esempi di pregio realizzati altrove da maestranze poi impegnate in città, a tracce inviate per lettera e seguite con attenzione o con licenze dai tagliapietre locali318. Solo in casi particolarmente importanti, come la costruzione del Salone d’onore del Castello, si sa ha notizia dei disegni di progetto di un architetto passati agli esecutori319. È di un certo interesse notare come il disegno del portale si inserisse, comunque, in un progetto generale dell’edificio che solo raramente vedeva, all’atto della sua posa in opera, il completamento. Molti sono gli esempi nella storia dell’architettura, di edifici incompleti320 o asimmetrici, per un periodo o per sempre, causa l’arresto improvviso dei lavori. Le carte d’archivio permettono di evidenziare questa circostanza anche per alcuni edifici udinesi, quale il palazzo del Giudice-Rocchis (via Aquileia 16, L2049) e il palazzo Colloredo (via Aquileia 22, L2051), “completati nella prima metà dell’Ottocento321.

Il banale riferimento alle misure nelle unità comuni dell’epoca mostra una chiave di lettura importante dei manufatti, quasi sempre trascurata, ma di indubbia efficacia nella comprensione del lavoro: l’uso, appunto, delle unità di misura di realizzazione per il preventivo rilievo e la successiva lettura del manufatto. Sono rari, infatti, gli studi sui portali che prendano avvio da una misurazione in unità antiche, altra cosa dalla presentazione del disegno non quotato con scala in unità antiche a lato
322.

L’adozione dell’unità di misura di progetto - nel caso dei portali di Udine il piede udinese, pari a 34.048 cm, suddiviso in 12 once di 2.84 cm
323 - mostra due fondamentali aspetti, strettamente legati all’ideazione che all’esecuzione del lavoro, del cui ruolo si perde traccia nel passaggio al sistema metrico decimale324.

Il primo aspetto, relativo all’ideazione, riguarda la divisione in 12 parti dell’unità base. È ben nota l’attenzione degli architetti rinascimentali verso lo studio delle proporzioni dell’edificio secondo dei rapporti razionali comuni alle proporzioni musicali e al moto dei corpi celesti, in virtù di quanto tramandato dalla cultura classica
325. È banale, ma forse non inutile, ricordare come solo la divisione in 12 parti dell’unità base consenta la facile definizione dei rapporti 1:2, 1:3, 1:4, 1:6, alla base del sistema di proporzioni in uso sia per la definizione degli ingombri dei manufatti che delle misure di dettaglio.

Secondo aspetto di rilievo, relativo, invece, all’esecuzione, è la tolleranza dell’unità di misura rispetto alla lavorazione della pietra: la sotto unità oncia, infatti, consente approssimazioni nella misura ampiamente compatibili con la lavorazione rustica del manufatto, non richiedendo precisioni troppo diverse da quelle consentite dalla tecnologia adottata.
Di ciò si è tenuto conto nei rilievi di dettaglio dei portali significativi rilevati, come illustrato dalle tavole allegate.

Emergono, così,  alcune indicazioni ricorrenti.

Innanzi tutto la ripetitività delle dimensioni dei conci dei portali bugnati: da 1 piede e 6 o 7 once in larghezza, 11 once in altezza per le bugne più piccole (p.e., nei portali di via Aquileia 23, L0029, e del già palazzo Gropplero in via Carducci 1, L0037), ai 2 piedi e 2 piedi e 6 once in larghezza, da 1 piede  a 1 piede  e 2 once in altezza per le bugne più grandi (è il caso del retro di palazzo Strassoldo Gallici, vicolo di Prampero 13B, del portale del Collegio dei Barnabiti in via Ginnasio Vecchio 13, L0112 e del portale di palazzo Gorgo-Maniago in via Viola 3, L0690_1).
In secondo luogo si riscontra la presenza del valore ricorrente di 17 cm, pari a 6 once, nella larghezza della mostra delle finestrature superiori (palazzo Billia Concina, via Rialto 5, L0786, palazzo Colloredo, via Aquileia 22, L2051) e nella dimensione massima della sezione dei ballaustri (palazzo Caporiacco, via Giovanni da Udine 23, L1525_2; palazzo Montegnacco-Berghinz-de Concina, via Mantica 40, L1160).

Variabile con l’importanza del portale, ma sempre riconducibile a un valore variabile secondo i multipli dell’unità di misura è l’entità del varco: 6 piedi (palazzo Billia Concina, via Rialto 5, L0786), 6 piedi e 6 once (via Aquileia 23, L0029), 7 piedi (palazzo Zignoni, via Grazzano 5, L0379; palazzo Asquini, via Manin 16, L1670; palazzo Colloredo, via Aquileia 22, L2051), 7 piedi e 6 once (già palazzo Gropplero in via Carducci 1, L0037; palazzo Gorgo-Maniago, via Viola 3, L0690_1), 8 piedi (vicolo di Lenna 8, L0881). Più variabile la luce netta, condizionata dall’impostazione generale del disegno della facciata.

Tra quelli esaminati in dettaglio, il già indicato  portale di palazzo Susanna-di Prampero (via Stringher 5, L0427) non è riconducibile al sistema di misura in uso a Udine, ma presenta un modulo, pari a metà della dimensione trasversale del piedritto, pari a circa 32 cm. Un unità di misura vicina a questa era, invece, in uso a Gradisca d’Isonzo: 1 piede = 31.6 cm
326.

Da queste brevi considerazioni l’idea che, pur nella precisione dei rilievi, la raccolta Italian doorways, redatta da Charles Babcock McGraw, nel 1929, con quote in unità metriche inglesi, in fondo, sia così poco consona allo spirito del manufatto quanto lo sono gli odierni rilievi nel sistema metrico decimale.


Ultimo aspetto, elemento di collegamento tra il progetto del portale e la sua realizzazione, è il tracciamento della sua forma per la definizione dei blocchi componenti.

Difficilmente si trovano riferimenti chiari in merito. È da supporre, che in analogia ad antiche pratiche di cantiere
327, nei casi più semplici, il portale venisse tracciato in scala 1:1 su un piano orizzontale, in pratica un pavimento, o un muro, e che le linee così definite servissero alla realizzazione delle sagome, probabilmente in legno, necessarie alla modellazione degli elementi componenti.

Si apre, parallelamente il discorso sulla definizione della forma dei conci secondo le leggi della geometria, cioè, sulla stereotomia
328. In realtà a Udine esiste un solo esempio di portale talmente complesso da richiedere uno studio di questo tipo, il portale di casa Rinoldi (via Liruti 22, L1435). Come già indicato, per motivi di distribuzione interna del fabbricato, l’apertura del portale, ad arco, si presenta leggermente inclinata rispetto al piano del muro di facciata. Non è possibile, purtroppo, in assenza di documenti a riguardo, se la definizione della forma sbilenca dei conci, forse studiata sulla carta o forse realizzata secondo un modello. Si tratta, comunque, di un esempio isolato: la semplicità delle realizzazione cittadine difficilmente deve aver richiesto questo tipo di studio e applicazioni.

È stato riscontrato come, molto spesso, la forma reale dei conci non corrisponda alla forma geometrica del portale
329. Si tratta di un aspetto piuttosto comune nella storia delle costruzioni, già posto in evidenza in più circostanze330. Questa dissonanza risponde a una duplice esigenza: da un lato, ragioni di stabilità degli elementi hanno richiesto delle configurazioni “ad incastro” che riducessero l’effetto spingente di parti inclinate (come, ad esempio, per la fascia del timpano spezzato del portale di palazzo Colloredo-Orgnani (via Marinoni 10, L0948), dall’altro ragioni di praticità costruttiva ed economia del materiale hanno portato all’uso di elementi di dimensioni superiori a quelle dei conci, non essendoci valido motivo, in presenza di blocchi di elevate dimensioni, di una loro divisione (un esempio fra molti la suddivisione dei blocchi dei piedritti di palazzo Colloredo, via Aquileia 16, L2051).






























































































































































317
Valga, a titolo di esempio, un riferimento al conto presentato dal tagliapietra Mattio Gavelli, in data 2 gennaio 1782,  per il palazzo di Treviso della famiglia Manin: “Avere lavorati cinque portoni … tutti di altezza di piedi 10 ornati di zoccoli, imposte e archi sovazadi con teste serie nelle serraglie, composti di sue erte, alette, angoli, cornice lesenate, con i suoi limbelli d’intorno, di mia fattura val …” in M. Frank, Virtù e fortuna. Il mecenatismo e le committenze artistiche della famiglia manin tra Friuli e Venezia nel XVII e XVIII secolo, 1996, p. 445.

318
Per il carteggio esistente con la committenza, comprensivo dell’invio di disegni e sagome, indispensabile è il prezioso riferimento a R. Picco, Per una storia del cantiere nel Settecento: l’attività di Giorgio Massari a Udine, 1994. Così, per alcuni lavori per la Basilica della Madonna delle Grazie: “nel gennaio del 1754 il Camerata inviò per posta sagome ad uso “Tagliapietra” indispensabili per intraprendere i lavori (BCU, CA, Ms. K XCVII, c2r)” (p. 69); “Francesco Piva mette “in profilo” il disegno del Massari (BCU, CA, Ms. K XCVII, c. 11v), forse basandosi sull’altare di San Marco in Duomo” (p. 71); analogamente per i lavori alla chiesa di S. Bernardino: “1742: lettera al Massari per la revisione del progetto della pianta sul rilievo del Capomistro Andreoli” (p. 220); “1743: ringraziamento per le sagome e il ‘diffuso dettaglio in chiaro lume’; non c’è notizia della sua presenza sul cantiere (ASU, CA, b.28, fasc.7)” (p. 221).

319
“Fu presente, soprattutto, Francesco Floreani, il quale fornì indicazioni e disegni a Martin taiapiera ed al marangon Iseppo di Carlo, tanto da far nascere l’idea che sia stato lui ad organizzare tutto il lavoro della sala (non dimentichiamo che all’epoca il Floreani, già stimato pittore, viveva il suo momento magico come architetto, visto che in quello stesso 1566 si dava inizio alla costruzione del Monte di Pietà, su suo progetto)”, cfr. E. Bartolini et al., Raccontare Udine. Vicende di case e palazzi, 1983, p. 269.

320
Non è possibile, in questo contesto, non ricordare la campata campione di palazzo Porto a Vicenza di Andrea Palladio.

321
Cfr. i disegni allegati alle domande alla Deputazione dell’Ornato, rispettivamente negli anni 1827 e 1834, in V. Masutti (a cura di), Giovanni Battista della Porta, Memorie sulle antiche case di Udine, 1983-1988, pp. 714-715.

322
A conoscenza di chi scrive : C. Fianchino, G. Sciuto, Materiali, procedimenti e costi della ricostruzione nel ‘700 in Sicilia, (1999); R. Maneira Cunha, As medidas na arquitectura séculos XIII – XVIII o estudo de Monsaraz, 2003. Interessante l’applicazione automatica realizzata per la conversione in ambiente Autocad e le considerazione sulla tolleranza e gli errori nella ricerca dei rapporti notevoli in architettura negli appunti del corso di Disegno Automatico del professor Camillo Trevisan in http://www.camillotrevisan.it /elenco01.htm.

323
Fino al secondo  dopoguerra i manuali delle costruzioni e dei periti agrimensori riportavano tabelle di trasformazione dei pesi e delle misure lineari, di superficie e di volume adottate nei principali centri italiani. Cfr. L. Gasparelli, Manuale del geometra, 1958, pp. 46-48; E. Stuani, E. Iurcotta, U. Genta, Manuale tecnico del geometra e del perito agrario, p. 85. Per l’area veneta un riferimento completo è in A. Tacchini, Metrologia universale, 1895, pp. 266-271 e in G. D. M., Tavole di ragguaglio ragionate dei pesi metrici  austriaci e veneti e delle misure lineari superficiali e di capacità, 1843 (riferimento al piede di fabbrica di Udine alle pp. 100 e 101); per il Friuli si veda anche: G.B. della Porta, Misure, pesi e monete usati in Friuli sino al secolo XIX, 1937.

324
Il passaggio al sistema metrico decimale venne sancito con Circolare Regno d’Italia N. gen. 19364 part 1080 Sezione 1. Udine, li 20 Novembre 1810: “In esecuzione di ordini superiori tutte le Amministrazioni di Finanza devono  col 1 Gennaro 1811 far uso delle nuove misure, e dei nuovi pesi del Regno stabiliti colla Legge 27. 8bre 1803, così nelle esazioni ad esse affidate, come nei proprij registri, conti, rapporti, ed atti qual si vogliano. … La nuova unità di misura lineare stabilita dalla ridetta legge è denominata metro. il metro si divide in 10 parti uguali che chiamansi palmi; il palmo in dieci diti::; il dito in 10 atomi.”. In realtà l’adozione tardò a concretizzarsi in virtù della consolidata dimestichezza con il sistema dei piedi e delle once, soprattutto nella realizzazione dei manufatti edilizi. Le domande di concessione lavori mostrano il perpetrarsi dell’unità corrente fino a ben oltre la metà dell’Ottocento, anche se le pratiche amministrative ufficiali contemporanee vengono necessariamente redatte con l’uso del sistema metrico decimale. Per un riscontro oggettivo si vedano i tanti disegni in V. Masutti (a cura di), Giovanni Battista della Porta, Memorie sulle antiche case di Udine, 1983-1988, 1983-1988.

325
Ricordava Rudolf Wittkower: “… fu appunto Pitagora a scoprire come i toni possano misurarsi spazialmente. Pitagora aveva trovato che le armonie musicali sono determinate da rapporti di piccoli numeri interi. Se, nelle stesse condizioni vibrano 2 corde, una delle quali sia lunga metà dell’altra, il suono della più breve sarà di un ottava (diapason) più alto della più lunga. Se le lunghezze delle due corde stanno nella relazione 2:3, la differenza nell’altezza del suono sarà di una quinta (diapente); se si trovano nella relazione 3:4, la differenza nell’altezza del tono sarà di una quarta (diatessaron). perciò le consonanze sulle quali si fondava il sistema musicale greco - ottava, quinta e quarta - possono venire espresse dalla progressione 1:2:3:4; progressione che non solo contiene gli intervalli semplici di ottava, quinta e quarta, ma anche i due accordi composti che i Greci conobbero e, precisamente l’ottava più quinta (1:2:3) e le due ottave (1:2:4). È ben comprensibile che questa scoperta sconvolgente facesse credere di aver finalmente ritrovato la legge armonica che governa l’universo …”; cfr. R. Wittkower, Principi architettonici dell’umanesimo, 1994, p. 103.

326
L’individuazione dell’unità di misura di progettazione può, in cente circostanze, permettere l’attribuzione di un manufatto. E’ il caso della tomba di Lavinia Thiene, nel Duomo di Vicenza. L’uso del cavezzo mantovano e il periodo di realizzazione hanno portato l’attribuzione dell’opera a Giulio Romano. Cfr. V. Pizzigoni, La Tomba di Lavinia Thiene: un’opera mantovana a Vicenza, 1999, pp. 135-139.

327
Cfr. A. Cagnana,  Un graffito di cantiere dagli scavi del Duomo di Venzone (Ud), in Atti del II Convegno Nazionale di Archeologia medioevale, 2000.

328
Per i riferimenti all’evoluzione dello studio della stereotomia cfr. G. Mocchi, J. A. Adhémar: natività ed epilogo della stereotomia, 1998. Riferimenti diretti in J.-A. Adhémar, Traité de la coupe des pierres, 1858; É. Lejeune, Traité pratique de la coupe des pierres, [1872].
 
329
Questo aspetto è evidenziato nella terza tavola di rilievo delle schede dettagliate del Catalogo.

330
Cfr., p.e., con riferimento a palazzo Ruccellai, G. Rocchi, Istituzioni di restauro dei beni architettonici e ambientali, 1990, p. 197.


LE TECNICHE LAVORAZIONE DELLA PIETRA

“… ed è il mestiero faticoso e poco meno che da fachino, bisognando stentar col martello e col scarpello tutto il giorno intorno a’ sassi, e voltarli e rivoltarli mille volte l’ora; oltra che qualche volta col martello di falla, e si rompe una mano, overo che una scheggia di sasso ti coglie in un occhio e ti fa veder le stelle, overo che lo scarpello nel marmo ti schernisce, trovandolo o troppo tenero o sodo di soverchio. Gli instromenti di costoro sono mazze, picconi, martelli, martellini, il maio, la sesta, la grippia, i cogni, i scalpelli, i trappani, o da braccio o da petto, la squadra, la rega, il modeno …”.

Nei cinquecento anni intercorsi tra la suggestiva descrizione (1584) di Tomaso Garzoni ne La piazza universale delle professioni
331  e l’introduzione in dei torni, delle macchine segatrici, dei martelli pneumatici - nei primi decenni del secolo scorso in Friuli, molto prima in altre regioni, sia per motivi economici che per diversa lavorabilità dei materiali - le tecniche di lavorazione dei blocchi e gli strumenti utilizzati si sono mantenuti sostanzialmente inalterati. Le pietre utilizzate per i portali udinesi hanno così visto perpetrarsi una tradizione centenaria, secondo tecniche e tempi di lavorazione immutati, contribuendo con un ritmato ticchettio del lavoro ai rumori della città332, fino a quando il progressivo scollamento tra artigianato e residenti, e le proteste di questi ultimi, ha portato a spostare i laboratori nella prima periferia, prima, nei nuovi insediamenti industriali poi: la trasformazione del laboratorio artigianale in officina ha preso forma lontano dagli occhi dei più.

La conoscenza delle tecniche e degli strumenti si basa, pertanto, necessariamente sulle testimonianze personali e sui testi di riferimento, con l’avvertenza che le pietre utilizzate a Udine, essenzialmente calcari duri, richiedono tecniche di lavorazione e strumenti ben diversi da quelli descritti in molti dei testi più conosciuti, uno per tutti il Dictionnaire di Eugéne Viollet-le-Duc, relativi a calcari teneri, con procedimenti e attrezzi vicini a quelli del legno, mentre sono simili a quelle del marmo, fatta eccezione per la fase finale di lucidatura che, sebbene possibile, non è mai stata seguita, se non per le fasce decorative in Grigio Carnia. Ciò vale anche per la pietra vernadia che, nonostante sia un calcare tenero, trova nella marcata sfaldabilità un punto di debolezza tale da non rendere possibili i lavori di intaglio comuni alle pietre di questo tipo.































331

Anche se riferita alle fasi preparatorie di una scultura, risulta di particolare interesse la descrizione che Tomaso Garzoni fa, nel 1585, dei cavapietre e degli scalpellini. Cfr. T. Garzoni, La piazza universale delle professioni, 1996, p. 1088, trascritta in A. Rampini, L’architettura delle porte urbane nel Cinquecento veneto, 1990, riferimento di cui chi scrive si sente debitrice.

332
Con i ritmi, i suoni, le voci, sono spariti gli odori: dei fuochi, degli animali da tiro, delle botteghe artigiane.
LE CINQUE CARATTERISTICHE DELLA LAVORABILITÀ

Strumenti e tecniche di lavorazione risultano fortemente condizionate dalle 5 caratteristiche fisiche della lavorabilità
333: la condizione attuale della pietra, la sua durezza, le caratteristiche collegate alla formazione geologica di provenienza, la reazione agli strumenti (ricettività), il colore.

Per condizione attuale della pietra si intende lo stato in cui il materiale si presenta al momento della lavorazione. Esistono pietre di facilissima lavorabilità all’atto dell’estrazione, quali i calcari teneri, ed estremamente resistenti una volta privati per evaporazione dell’acqua di cava in essi contenuti. Non è questo il caso dei calcari udinesi, per i quali la stagionatura non comporta sensibili differenze nella lavorabilità, con l’attenzione, però, che la pietra d’Aurisina, porosa e, pertanto, geliva, richiede la collocazione in opera solo dopo stagionatura per garantirne la resistenza al gelo. Condizione attuale della pietra significa, nel contempo, la possibilità del riutilizzo di blocchi di recupero. Nel caso delle pietre udinesi la lavorabilità ottimale è presente sotto pochi centimetri di materiale: la sgrossatura di questo spessore rende alla pietra le condizioni di lavorabilità presenti all’estrazione in cava.

La durezza della pietra condiziona la durezza dello strumento da utilizzare e, quindi, la sua tempra
334, così come la sua forma. Lo stesso strumento, una subbia, per esempio, era più sottile e aveva una maggior rastremazione verso il bordo del taglio se fatto per un calcare duro, come nel caso udinese, più spesso e smussato per una pietra molto dura, quale il granito. La produzione attuale degli strumenti di lavoro tiene in poco conto questo tipo di esigenze: le punte delle subbie sono, infatti, praticamente tutte uguali, durissime, con punte di Widia (lega di carburo di tungsteno con l’aggiunta di cobalto e nichel), a deperimento della qualità dell’eventuale lavoro artigianale. La durezza definisce anche l’angolo di inclinazione con cui la pietra viene lavorata: verticale nei graniti, vicina ai 45° nei calcari duri e nei marmi, con inclinazioni superiori nei calcari teneri.

I difetti della pietra sono, ovviamente, conseguenza del processo di formazione e condizionano le tecniche di lavorazione. E’ il caso della pietra vernadia, fortemente stratificata, delle inclusioni della pietra piasentina, dette “carboni”, che, se di grandi dimensioni, rigonfiano con l’acqua e tendono a spaccare la pietra, se di piccole, “saltano”, lasciando dei caratteristici vuoti, dei piccoli fossili dell’Aurisina Roman Stone che, durante la lavorazione, possono staccarsi dalla pietra, lasciando, a loro volta, delle piccole cavità in superficie. Il processo di formazione, nelle rocce sedimentarie, definisce il ricordato verso della pietra. La pietra, così come si separa, si lavora più facilmente in direzione del verso, ma tende nel contempo a sfaldarsi, se il verso è troppo pronunciato. La presenza di una stratificazione evidente dovrebbe, peraltro, condizionare la giacitura di posa che, per diminuire gli effetti di degrado, dovrebbe essere concorde a quella di sedimentazione
335.

Con reazione agli strumenti si indica la proprietà di una pietra di poter essere lavorata con certi strumenti, piuttosto che con altri. I portali rinascimentali udinesi sono realizzati con un calcare compatto che ha permesso lavori di intaglio finissimo con opportuni scalpelli a punta fine, lavorazione, per contro, non possibile né con la pietra piasentina, né con la pietra d’Aurisina. Sotto categoria della ricettività agli strumenti è la proprietà di una pietra di poter essere lucidata. Nel caso udinese, come detto, non sono rilevabili esempi di lucidatura, se non in alcune parti protette dei portali rinascimentali.

Il colore della pietra, o meglio, le sue variazione cromatiche, ne condizionano la lavorabilità nel senso che ad esse corrispondono variazioni nella composizione chimica del materiale. Diverse durezze possono corrispondere a diverse tonalità di una pietra.















333
Cfr. P. Rockwell,  Lavorare la pietra, 1989, pp. 15-21.

334
Per tradizione la tempra doveva avvenire in acqua che non avesse “toccato ferro”: acqua piovana raccolta in vasche di pietra.

335
Cfr. L. Lazzarini, M. Laurenzi Tabasso, Il restauro della pietra, 1986, pp. 33-37.
















































LE FASI DI LAVORAZIONE

Per quanto riguarda le fasi di lavorazione, in laboratorio o al piede della cava, dei blocchi grossolanamente sbozzati, esse possono essere suddivise in: squadratura e spianatura, rifinitura, sagomatura, levigatura e lucidatura, operazioni accessorie
336.

La squadratura e la spianatura di un blocco informe consistevano nell’aggiustamento dimensionale e nella regolarizzazione delle superfici, necessaria alla corretta impostazione del pezzo per le fasi successive. Questa fase, che costituiva il primo esercizio del lavorante di bottega
337, conseguente alla sbozzatura in cava, veniva realizzata ancora con l’utilizzo di mazza e scapezzatore, di mazza e subbia, mazza e scalpello o di mazza e gradina, uno scalpello dentato di uso comune a partire dal XIV secolo, nelle costruzioni e in scultura338. La squadratura e la spinatura erano in genere una fase preparatoria. Non così per la pietra piasentina: l’effetto di rusticità, per primo sfruttato dal Palladio nell’Arco Bollani (piazza Libertà 3, L1651_1) e in palazzo Antonini (via Gemona 5, L1544), ebbe un seguito importante in molte costruzioni cittadine (ad esempio nelle bugne di palazzo Montegnacco-Berghinz-de Concina, via Gemona 40, L1160)  per il particolare modo di scheggiarsi della pietra lavorata con la sola mazza, con mazza e punta o con mazza e scapezzatore, che lascia ai blocchi tutta la viva forza delle pietre appena cavate.

“Il pezzo sgrezzato, squadrato e spianato, pronto per la rifinitura, a bottega era generalmente appoggiato su un letto di sabbia per facilitarne la manovrabilità, o messo su cavalletti”
339. La rifinitura del blocco veniva realizzata a partire dal tracciamento, con l’uso di una scalpello, di una prima fascia piana di bordo su uno spigolo della pietra. Traguardando la posizione di una riga di ferro o di legno, appoggiata a questa fascia, con quella di una accostata sulla faccia opposta, veniva definita una linea giacente sullo stesso piano, base per il tracciamento di una seconda fascia; l’unione di queste, poi, con altra due fasce di bordo, andava a costituire su un piano una cornice piana, a riquadratura della faccia da spianare340.
La lama dello scalpello, inclinato intorno ai 45° all’atto della percussione, era mantenuta non perpendicolare al bordo per evitare lo scheggiarsi della pietra durante la lavorazione, andando così a lasciare un’impronta costituita da fitte linee inclinate rispetto allo spigolo del blocco, traccia della superficie di incisione non perfettamente piana (ad esempio nel bordo esterno del piedritto della Canonica del Carmine, via Aquileia 63, L0013). All’interno di questa cornice, la cordellina, la pietra veniva comunemente livellata con l’uso della martellina, uno strumento percussorio, a forma di martello, con le estremità della parte metallica rastremate, a formare, sui due lati, due piccole lame dentate. In funzione del grado di finitura richiesto per il blocco, venivano usate martelline grosse, medi e fini, distinte per la diversa dimensione e il diverso numero dei denti. Il tipo di martellina definisce, ovviamente, l’impronta lasciata dallo strumento, in forma di serie allineate di piccoli incavi ravvicinati (un esempio fra i moltissimi, le bugne del portale di palazzo Zucco, via Paolo Sarpi 12, L0877). È interessante notare come l’uso della martellina, estremamente diffuso in Friuli, affondi le proprie origini nei luoghi della tradizione romana: se la prima attestazione della martellina dentata si ebbe nei paesi costieri del Mediterraneo Orientale, le prime tracce in Italia si rinvengono proprio ad Aquileia e a Grado (V-VI secolo), a Torcello (VII secolo) e a Venezia (X secolo)
341. Diverse finiture superficiali venivano ottenute con l’uso di altri strumenti. È il caso della finitura detta “a broccatello”, composta da piccoli incavi ravvicinati, omogeneamente distribuiti sulla superficie in forma caotica, effetto dell’uso di una subbia, percossa perpendicolarmente alla superficie, o, con risultato praticamente equivalente, di un piccolo piccone a punte rastremate (ad esempio nelle bugne sporgenti di via Aquileia 23, L0029). Un aspetto più morbido della superficie, pur con le stesse caratteristiche, veniva ottenuto sostituendo alla mazza in ferro un mazzuolo in legno in accoppiamento con la subbia. Una superficie rigata da piccoli solchi paralleli piuttosto disordinati era il risultato dell’uso della gradina, colpita con un inclinazione variabile, intorno ai 45°, in funzione dell’effetto cercato. A seconda del numero dei denti e delle loro dimensioni si parlava, anche in questo caso, di gradina grossa, media, fine342. Ultimo strumento di finitura è la bocciarda, martello con le estremità piane dentate, il cui effetto è una superficie caoticamente disegnata da gruppi regolari di piccoli solchi. La bocciarda è uno strumento recente, introdotto nel XVIII secolo, comunemente usato in tutto l’Ottocento, sia per lavori nuovi, che per interventi di restauro, e, probabilmente, per questo, ritenuto erroneamente diffuso anche nei secoli precedenti343 (ad esempio, tra i pochi, le bugne del portale di palazzo Pavona-Asquini, via Manin 16, L1670). La parte metallica di tutti gli strumenti percussori a forma di martello è simmetrica. Motivo di ciò è la possibilità di utilizzarne la seconda faccia, una volta “spuntata” la prima, rimandando la risagomatura per forgiatura alla fine della giornata di lavoro.
Accanto a queste finiture piane, i blocchi dei portali udinesi presentano spesso delle finiture rustiche particolari, proprie dell’uso della pietra piasentina. È il caso delle bugne del portale del Collegio dei Barnabiti (via Ginnasio Vecchio 13, L0112), spianate a mazza e subbia grossa
344, le cui tracce, ben visibili, definiscono una rigatura irregolare; delle bugne sporgenti del portale di vicolo di Lenna 8 (L0881), spianate a subbia fine, con tracce ancora visibili, ma più regolari; delle bugne del portale di palazzo Gorgo-Maniago (via Viola 3, L0690_1), con uso sapiente della subbia a definire una superficie regolare trapunta, tipo capitonnè, molto comune in città345; delle bugne del portale di via Cussignacco 17A (L0150), ordite a subbia e mazza secondo un disegno regolare a linee parallele (lavorazione utilizzata anche per la pietra vernadia, ma, soprattutto, per la finitura delle soglie, secondo una trama diagonale o perpendicolare all’elemento, spesso intrecciando i segni, a definire una successione di losanghe).

La sagomatura è forse una delle fasi più interessanti del processo di lavorazione degli elementi architettonici. “Per la realizzazione di architravi, stipiti, mensole … lo scalpellino si avvaleva di sagome, generalmente metalliche o di legno, che costituivano il parametro di riferimento della sua esecuzione. Il contorno della sagoma poteva essere segnato da matita o carboncino”
346. Il tracciamento delle sagome, secondo i rapporti definiti dalle regole dell’ordine architettonico prescelto (a Udine essenzialmente il tuscanico) ha impegnato per secoli, a partire dal Rinascimento, architetti e scalpellini. Lo studio degli ordini è sempre stato, infatti, alla base di progettazione ed esecuzione, sviluppando una sensibilità per i rapporti tra le parti e una conoscenza dei dettagli oggi del tutto perduta. Nella maggior parte dei casi la base per il disegno era sicuramente costituita dalle tavole dei trattati e dei manuali, primo tra tutti il Vignola347. Lo studio della disposizione, delle proporzioni, del tracciamento degli elementi componenti (listelli, cavetti, gole dritte e rovesce, scozie, …) era, peraltro, materia non solo di corsi di disegno delle scuole di arti e mestieri348, ma anche di corsi superiori universitari349. Le cornici dei portali udinesi mostrano, peraltro, la ripetizione di modelli comuni, forse per il riutilizzo frequente delle sagome di bottega; solo in poche circostanze, infatti, i profili presentano curvature anomale, corrispondenti all’affermarsi di nuove sensibilità stilistiche350. Delle sagome resta traccia in molti incartamenti di archivio, principalmente relativi alle domande di realizzazione delle cornici di coronamento degli edifici presentate alla Deputazione dell’Ornato durante tutto l’Ottocento351; alcune sagome sono, altresì, presenti tra le carte dell’Archivio Comunale352.

La disposizione degli elementi delle cornici corrisponde sia ad aspetti funzionali che estetici: da un lato la necessità di allontanare le acque meteoriche dalle aperture, come ben illustrato da Eugene Viollet-le Duc
353, porta a una configurazione sporgente verso l’alto, con tagli netti tra le modanature componenti, a “spezzare” il percorso di percolazione delle gocce, dall’altro l’inclinazione delle fasce componenti verso l’alto, principalmente del gocciolatoio, è stabilita in modo da governare opportunamente l’effetto della luce riflessa, marcando la separazione tra le parti354. Anomala è, in tal senso, l’inclinazione riscontrata in praticamente tutti i gocciolatoi rilevati, verso il basso, funzionalmente errata, forse legata a compensare l’effetto dovuto alle luci friulane, più smorzate di quelle delle architetture romane, riflettendole verso la strada, piuttosto che verso l’alto. Argomento di indubbio interesse è, inoltre, il tracciamento dei profili dei balaustri355, che trova in Udine tanti vari esempi nelle balconate superiori dei portali a più livelli. Costante comune a tutti, pur nella diversa sequenza dei profili, come già indicato, la dimensione trasversale massima, pari a 17 cm, equivalente alle 6 once.

Si è anticipato come tracce di levigatura e lucidatura non siano presenti nei portali udinesi, se non nel caso di alcuni portali sacri, come quello della Chiesa di S. Cristoforo. Tale circostanza è, da un lato, legata alla poca corrispondenza di questo tipo di finitura con la severità del disegno dei portali, dall’altro, probabilmente, al fatto che una superficie perfettamente liscia, esposta agli agenti atmosferici, verrebbe ad essere rapidamente ricoperta da una patina uniforme, quando non macchiata dal percorso preferenziale del dilavamento, risultando in un appiattimento dei volumi, a scapito dell’effetto plastico comunemente ricercato. Anche in questo caso, quindi, motivi tecnologici e formali si intersecano nella definizione della soluzione adottata. Un solo cenno al procedimento generalmente in uso in città, a partire dallo sfregamento con pietra pomice per finire con lo sfregamento con polvere di acido ossialico addizionata con polvere di zolfo.

Per quanto riguarda le operazioni accessorie, esse sono riconducibili alla realizzazione di “tasche” per l’inserimento dei cardini e degli elementi di collegamento, fissati alla pietra per colatura del piombo fuso, e dei fori predisposti per il fissaggio degli elementi decorativi
356,stemmi e i mascheroni in chiave, incastrati successivamente con perni in ferro o ottone, o con la piombatura di parti in ferro. Fori e tasche venivano generalmente realizzati con subbia e mazza, raramente con i trapani, il cui uso è più proprio della scultura, probabilmente sulla superficie finita, successivamente alla posa in opera dei conci nel caso degli alloggiamenti dei cardini e degli elementi di collegamento357.

Se fino ad ora si è fatto riferimento alle lavorazioni visibili dei conci, rilevate dall’osservazione degli elementi in opera, è altrettanto importante fare cenno al grado di finitura degli elementi componenti i portali nelle parti non visibili in condizioni ordinarie, altrettanto utile alla comprensione del funzionamento complessivo del manufatto. Si tratta della lavorazione delle parti non esposte, inglobate nella muratura o nascoste dall’intonaco, particolarmente utili alla comprensione del sistema di ammorsamento e di solidarizzazione con la muratura e gli strati di finitura. Lo studio diretto di alcuni portali smontati o ricomposti
358 mostra, in primo luogo, l’assoluta irregolarità delle parte a diretto contatto con la muratura, lasciate allo stato di sbozzo, sia per motivi economici, che per rendere più efficiente l’ammorsatura con la parete retrostante. Le bugne presentano, peraltro, dimensioni trasversali assolutamente casuali, chiaramente condizionate da quelle del blocco di partenza. Nei casi osservati, in pietra piasentina, sono ben visibili le tracce della lavorazione di sbozzo, prevalentemente a sola mazza nelle parti a contatto con la muratura, a subbia in corrispondenza della sovrapposizione dell’intonaco. Garantisce un miglior collegamento con il paramento murario la conformazione di alcuni elementi sporgenti dal profilo dei piedritti, formalmente corrispondenti al collegamento piedritto traverso e agli elementi di base del portale. Sono sorprendentemente grossolanamente rifinite anche tutte le parti in aggetto non visibili dal fronte strada, quali i cornicioni di coronamento e le cornici di separazione tra portale e aperture superiori, con un lavoro di finitura limitato allo spianamento con subbia e martello.


Discorso a parte merita la realizzazione dei mascheroni, elementi decorativi che non solo possono assumere una valenza artistica inaspettata, ma che, soprattutto, riescono a comunicare lo spirito del luogo come nessuna altra parte del portale. L’uso di protomi umane parte dalle porte di Volterra, Pompei e Falerii Novi, per poi passare, tra i tanti esempi dell’architettura classica e rinascimentale, alla porta di Giano a Roma, alla porta Aurea di Ravenna
359, alle porte del Sanmicheli, alla Basilica del Palladio. Di origine probabilmente truculenta, teste dei nemici uccisi esposte alle porte urbiche in segno di ammonimento, esse assumono una valenza apotropaica360, effigi di Ercole o di altre figure mitologiche, diventano numi tutelari dell’uscio, talora ritraendo nelle effigie i tratti stessi del proprietario, ma anche dei campanili361. A Udine l’uso dei mascheroni si colloca nel XVII secolo con una produzione talora di pregio, comunque, però, secondo lineamenti estremamente composti e naturali. Ben diversa cosa dai mascheroni di Capodistria, immagini caricaturali grossolanamente definite362, dai mascheroni di Trento363, limitati nell’espressività dalla durezza della pietra, dei fantastici mascheroni triestini, i Panduri, scanzonato richiamo a stirpi feroci364. I mascheroni udinesi ricordano, invece, da vicino, gli esempi veneti e veneziani, le teste barbute della Basilica Palladiana365, quelle di palazzo Rezzonico del Massari366, ma anche i tratti delicati dei volti del Longhena a palazzo Zane a San Stin367.

Generalmente realizzati in pietra piasentina, non hanno attribuzioni certe, contrariamente ad altri esempi più famosi
368. Si tratta quasi sempre di volti maschili, con lunghe barbe (tra i tanti, quelli di palazzo Braida, via Marinoni 47, L0938; palazzo Montegnacco-Berghinz-de Concina, via Mantica 40, L1160; palazzo Colloredo, via Aquileia 22, L2051; palazzo Desia-Tommasoni, via Cussignacco 5, L0155, quello bellissimo del portale di sinistra del Palazzo Arcivescovile, piazza Patriarcato 1A, L1801_1, assolutamente non paragonabile al suo simmetrico di Piazza Patriarcato 1B, L1801_3), raramente soldati (concio in chiave di palazzo Bartolini, piazzetta Marconi 8, L1595_2), talvolta con lineamenti da gentiluomo (casa Fabiani-Pecile, via Paolo Sarpi 3, L0847; via Pelliccerie 12, L0838). Le rare figure femminili ornano, se mai, le aperture superiori ai portali (palazzo Sabbadini-del Torso, via Aquileia 17, L0032; palazzo Bartolini, piazzetta Marconi 8, L1595_2; palazzo Colloredo, via Aquileia 22, L2051), a eccezione della bellissima Minerva di palazzo Caporiacco (via Giovanni da Udine 23, L1525_2). La realizzazione del mascherone partiva, generalmente, da un primo modello in creta. Attraverso il passaggio per un calco veniva, quindi, ottenuto il modello in gesso, base per la scultura su pietra, seguendo una trasposizione metodica di punti di riferimento, pratica corrente nella scultura di molti periodi369.

































































































































































































































































336
Tutte le fasi di lavorazione della pietra sono illustrate in maniera insuperabile in: Escuela Taller de Restauration "Centro Historico" de Leon (a cura di), Guia pratica de la canteria. El Trabajo de la Piedra, 1993, resoconto del lavoro degli scalpellini che hanno effettuato il restauro della Cattedrale di Leon (E), dono prezioso di Edward Allen. In questo paragrafo il riferimento a tutte le lavorazioni è ai dettagli evidenziati nelle schede di catalogo compilate. Molto significativa l’illustrazione a corredo di C. Conti, Tracce di lavorazione sui monumenti antichi: osservazioni dal Partenone alla Colonna Traiana, in Migliari R. (a cura di), Il disegno e la pietra, 2000, p. 11.

337
“E mi ere an bocia, ma proprio bocia de botega. Col car mat, tirà de cavai i ne avéa portà a Belun i bloch che servia e me papà al me à dit: “Ricava questo piano”. e mo ò scominthià a scarpelàr, a man…perché non c’era aria compressa né niente alrto. Dovevi fare una linea, poi l’angolo, poi riportare le linee a traguardo e ò cominciato a capire quando un piano era perfettamente a livello. Avrò impiegato un mese a preparare i piani di un paio di blocchi. Là ho iniziato veramente a imparare cosa voleva dire lavorare la pietra”. Cfr. U. Olivier, Tecniche e strumenti tradizionali di lavorazione della pietra, in D. Perco (a cura di), Uomini e pietre nella montagna bellunese, 2002, p. 40.

338
È di importanza fondamentale, nel campo della scultura, l’uso fatto della gradina da Michelangelo, a definire delle superfici quasi abbozzate, quasi uno schizzo nella pietra; cfr. P. Rockwell, S. Rosenfeld, H. Hanley, The compleat marble sleuth, 2004, pp. 153-168.

339
Cfr. U. Olivier, Tecniche e strumenti tradizionali di lavorazione della pietra, in D. Perco (a cura di), Uomini e pietre nella montagna bellunese, 2002, p. 44.

340
Oltre che in Escuela Taller de Restauration "Centro Historico" de Leon (a cura di), Guia pratica de la canteria. El Trabajo de la Piedra, 1993, immagini utili per la comprensione sia delle fasi di lavorazione, che degli strumenti e delle tracce lasciate dagli strumenti sulla pietra sono presenti in: P. Rockwell, Lavorare la pietra, 1989 e, con riferimento all’area friulana, nell’articolo: A. Bellina, F. Doglioni, A. Quendolo, L’integrazione delle lacune nella ricostruzione per anastilosi del paramento lapideo del Duomo di Venzone. Aspetti concettuali e modi esecutivi, in G. Biscontin, D. Mietto (a cura di), Le pietre nell’architettura: struttura e superfici, 1991, pp. 593-604.

341
Cfr. G. Bianchi, R. Parenti,  Gli strumenti degli scalpellini toscani. Osservazioni preliminari, in in G. Biscontin, D. Mietto (a cura di), Le pietre nell’architettura: struttura e superfici, 1991, pp. 139-149.

342
A Udine, in realtà, l’uso della gradina per la realizzazione della finitura di un blocco, è piuttosto raro. Un esempio è costituito dagli elementi in pietra d’Istria dello scalone della Biblioteca Comunale in Palazzo Bartolini, piazzetta Marconi 8.

343
Per la storia degli strumenti usati nella lavorazione della pietra il riferimento obbligato è a: G. C. Bessac, L’outillage traditionnel du tailleur de pierre de l'antiquite a nos jours, 1986.

344
Come per tutte le punte, anche la subbia ha spessori di incisione diversi, che portano ad indicare le lavorazioni “a punta grossa” , come è il caso di questo portale, e a “punta fine”.

345
La presenza dei grossi incavi realizzati con la subbia secondo questa trama regolare, a parere del signor Italo Bulfone, andrebbe a mascherare gli alloggiamenti dei ferri utilizzati per la movimentazione e la posa in opera dei blocchi. Per una trattazione completa dei sistemi di spostamento, pressoché immutati nei secoli, cfr. J. P. Adam, L’arte di costruire presso i Romani. Materiali e tecniche, 1996, pp. 44-53.

346
Cfr. U. Olivier, Tecniche e strumenti tradizionali di lavorazione della pietra, in D. Perco (a cura di), Uomini e pietre nella montagna bellunese, 2002, p. 45.

347
Ancora nell’Ottocento è presente il riferimento esplicito agli ordini architettonici codificati dal Vignola. Un esempio è costituito dalla realizzazione degli elementi in pietra dello scalone di palazzo Bartolini (piazzetta Marconi 8, L1595_2), secondo un conto preventivo di spesa, datato 1857: “… N. 2 colonne a sostegno dell’architrave del pianerottolo o galleria del piano nobile dell’ordine composito sagomato secondo il Vignola …”

348
Cfr. C. Torricelli, Disegno geometrico, 1906.

349
Come dal  programma del corso di Architettura Tecnica Regia Scuola Superiore Politecnica di Napoli, Sezioni di Architettura e Ingegneria Civile, Primo anno di corso del Triennio di Applicazione, 1911: “… 24. Ordini architettonici - Origine degli ordini - Riassunto storico -Proporzioni e carattere degli ordini - Loro sovrapposizione.; 25.  Parti completive e decorative degli edifici - Modanature - Cornici - Basamenti - Bugnati - Coronamenti - Attici - Frontoni - Nicchie - Balaustrate - Mensole - Modiglioni - Acroteri.; 26.  Bellezza degli edifizi - Cenno storico intorno agli stili architettonici -Fattori di bellezza di un edifizio - Decorazione - Impiego degli ordini in architettura - Illusioni ottiche - Norme generali per le facciate degli edifici.  …’.

350
È il caso, ad esempio, della gola di coronamento della prima apertura superiore del portale di palazzo Pavona Asquini (via Manin 12, L1670) e del piccolo profilo a becco di civetta del balcone sovrastante, elemento di origine egizia, utilizzato negli ordini classici, ma abbandonato in periodo rinascimentale; cfr. R. Chitham, Gli ordini classici in architettura, 1987, p. 135.

351
Cfr. A. Biasi, G. Malisani, L’età neoclassica a Udine. Evoluzione del gusto nella decorazione degli interni e mutamenti delll’edilizia cittadina alla luce dell’attività della Deputazione dell’Ornato in Età Napoleonica e Austriaca, 1986.

352
Cfr. Archivio Comunale di Udine, DXXIX c239r, presso la Biblioteca Comunale.

353
Cfr. la voce pierre in E. Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné de l’architecture, 1875, vol. VII,  p. 127.

354
Si vedano gli schizzi di modanature di Michelangelo, Casa Buonarroti, Firenze, N. 62A, in A. Cavallari Murat, Lezioni di tecnologia dei marmi e delle pietre, 1964, p. 44 e i commenti in A. Bruschi, Strutture, elementi e tipi edilizi, in Enciclopedia Universale dell’arte, 1965, vol. XIII, p. 151.

355
Insostituibile la trattazione del Wittkower: “Il balaustro rinascimentale e il Palladio”. Cfr. R. Wittkower, Palladio e il palladianesimo, 1995, pp. 53-70.

356
Esemplare è l’immagine dell’alloggiamento vuoto in chiave al portale del Vignola di palazzo Bocchi a Bologna; cfr., p.e., M. Biraghi, Porta multifrons, 1992, p. 55.

357
Cfr. le importanti osservazioni sulla realizzazione in opera delle lavorazioni aggiuntive in: A. Ugolini, Il Tempio Malatestiano: approvvigionamento, lavorazione e finitura degli elementi lapidei, in G. Biscontin, D. Mietto (a cura di), Le pietre nell’architettura: struttura e superfici, 1991, pp. 355-364.

358
Molto c’è da imparare anche dal portale che giace all’entrata della Facoltà di Architettura di Venezia, secondo l’allestimento dello spazio dell’architetto Carlo Scarpa.

359
Della Porta Aurea, demolita a metà '500, esiste un rilievo dettagliato del Palladio, realizzato durante il suo passaggio in città nel 1545, in: L. Puppi (a cura di), Palladio. Corpus dei disegni al Museo Civico di Vicenza, 1989, disegno 34.

360
Per alcune riflessioni sul significato dei mascheroni cfr. E. Eulisse, Di alcuni riflessi anticlassici nelle maschere architettoniche della città del Concilio, in M. Monopoli, Trento. Maschere barocche, 2003, pp. 17-23.

361
“… campanile di Santa Maria Formosa … sulla porticina, una testa grottesca in cui è riconoscibile un notevole pezzo di scultura … La tradizione imponeva che sulle porte dei campanili fossero scolpiti dei mostri perché il diavolo, spaventato, stesse lontano dall’ambiente sacro e non suonasse le campane a tempo indebito … la testa irritò moltissimo, se non il demonio, il raffinato Ruskin, il quale, generalizzando per amore di polemica, attribuisce al gusto del secolo le numerose teste in chiave di arco che, invece, erano già state diffuse dall’arte del Sanmicheli  e  del Sansovino”;  cfr. E. Bassi, Architettura  del Sei  e Settecento a Venezia, 1962, pp. 34-36.

362
Cfr. F. Forlani, I mascheroni di Capodistria, 1999.

363
M. Monopoli, Trento. Maschere barocche, 2003.

364

“Questi soldati, assoldati nei territori della Slavonia e dei Balcani e aggregati all’esercito imperiale austriaco, erano noti in tutta Europa per la loro crudeltà, per la loro rozzezza di stampo “barbarico” e per la stravaganza delle loro divise”, V. Abbate, A. Mazza (a cura di), Il Libro dei Panduri. Disegni di Domenico Maria Fratta nelle collezioni di Palazzo Abatellis, 1995, a commento della mostra dei disegni realizzati da Domenico Maria Fratta, “Il libro dei Panduri”, durante la guerra di Successione  (1740-1748).

365
Cfr. H. Burns, Palladio’s Vicenza, in  J. Guillaume (a cura di), Les chantiers de la Renaissance, 1991, p. 222.

366
Cfr. A. Massari,  Giorgio Massari, architetto veneziano del Settecento, 1971, figure 243 e 247.

367
In E. Bassi, Architettura del Sei e Settecento a Venezia, 1962, p. 141.

368
Di uno dei mascheroni di palazzo Rezzonico si conserva il bozzetto in creta, opera di Giovanni Mattia Morlaiter (1699-1781), peraltro attivo a Udine nella fabbrica della Chiesa di Sant’Antonio (1737); cfr. A. Massari,  Giorgio Massari, architetto veneziano del Settecento, 1971, figura 242. Alcuni dei  mascheroni della Basilica Palladiana sono, invece, opera del fratello di Andrea Palladio, Giovan Antonio, cfr. H. Burns, Palladio’s Vicenza, in  J. Guillaume, Les chantiers de la Renaissance, 1991, p. 222.





369
La realizzazione di un elemento scultoreo a partire da un modello in creta o gesso è una tecnica comune a molte epoche, che porta, però, in sé un appiattimento dei volumi, legato alla diversa matericità dei materiali che porta a una diversa riflessione della luce. Scrive a riguardo lo scultore Adolfo Wildt: “Pensate che la diversità tra le due materie è tale che si può ritenere che un’incisione di un millimetro di profondità nella creta deve avere nel marmo bianco, per ottenere lo stesso effetto d’ombra, non meno di due millimetri. … Quella proporzione enunciatavi come schema, voi potete essere certi che varierà perpetuamente secondo le varie profondità dello scuro, secondo la sua ubicazione, secondo i riflessi, i contrasti o le somiglianze che eserciteranno altri scuri e altri rilievi intorno a lui”. Cfr. A. Wildt, L’arte del marmo, 2002, pp. 18-19, rendendo chiaro di un certo senso di appiattimento presente in alcuni dei mascheroni cittadini.
I TEMPI DELLA REALIZZAZIONE

Le carte d’archivio permettono di valutare in maniera orientativa i tempi delle lavorazioni degli elementi architettonici in pietra, partendo dalle voci di elenchi prezzi dettagliati. Non essendo stato possibile rinvenire documentazione adeguata relativa alla realizzazione di portali, l’attenzione si è spostata verso altri manufatti in pietra. Utile è risultato, in tal senso, l’elenco prezzi steso dall’Amministrazione comunale per la realizzazione, a metà Ottocento, dello scalone di palazzo Bartolini (piazzetta Marconi 8, L1595_2). Di seguito si riportano alcune parti delle voci più interessanti, a definire un primo quadro di riferimento non solo sui tempi, ma anche sulle specifiche di lavorazione, sulle maestranze impiegate e sui costi relativi dei diversi artigiani e del materiale, a evidenziare, tra i tanti aspetti possibili, il costo irrisorio dei primi rispetto a questo.

“11. Gradini di Pietra d’Istria per la scala principale che ascende al piano nobile. Variano di lunghezza da met. 2,00 a met. 2,80. Sono larghi in zappare senza lo sporto del cordone met. 0,34 alti met. 0,1620 … Il prospetto ed il cordone saranno lavorati a martellina fina, il piano del zappare broccato a martellina grossa.
Giornata 1,30 di Tagliapietra sbozzatore a f.ni 0,80
Giornata 1,50 di scalpellino sagomatore e pulitore a f.ni 1,20 …
Giornata 0,25 di muratore col manovale a f.ni 1.25”
“13. N. 5 pilastrini per la ringhiera grossi in quadro met 0,25 alti met. 1,25 compresa la porzione internata.
Costo di uno.
Met.3 0,09 di pietra a f.ni 31,50
tagliapietra sbozzatore giornate N. 1 a f.ni 0,80
Giornate 2 di scalpellino sagomatore a f.ni 1,20”
“14. Colonnetta di balaustrata alta met. 0,75 comprese le piccole porzioni da internarsi a base circolare col diametro massimo di met. 0,17 e con la sagomatura offerta dalle ballaustre del Vignola.
Costo di una.
Met.3 0,025 di pietra a f.ni 31,50
Giornate N. 2 di sbozzatore a f.ni 0,80
Giornate N. 3 di scalpellino sagomatore a f.ni 1,20”
“17. N. 2 colonne a sostegno dell’architrave del pianerottolo o galleria del piano nobile. Di ordine composito secondo il Vignola. Diametro dell’imoscapo met. 0,38; di sommoscapo met. 0,32.
Costo di una.
Fusto di un solo pezzo alto met. 2,56; Base formata di semplice plinto rotondo del diametro di met. 0,40 e di un astragalo; Capitelo alto met. 0,35 sagomato secondo il Vignola.
Volume dei tre pezzi di pietra greggia occorrenti met.3 0,06 a f.ni 31,50
Giornate 25 di sbozzatore a f.ni 0,80
Giornate 40 di scalpellino sagomatore e pulitore a f.ni 1,20”
“18. N. 2 pilastri addossati sporgenti 1/4 di diametro lavorati in corrispondenza alle colonne ossia met. 0,095. Base, fusto e capitello in corrispondenza alle colonne colla stessa sagomatura.
Costo di un pilastro completo.
Volume dei tre pezzi di pietra occorrente, met. 0,31 a f.ni 31,50
Giornate 12 di sbozzatore a f.ni 0,80
Giornate 30 di scalpellino sagomatore a f.ni 1,20”.






































IL CANTIERE E LA POSA IN OPERA

Numerose sono le immagini tramandate dalla storia dell’arte di cantieri aperti, spesso in relazione ad avvenimenti leggendari (la costruzione della torre di Babele
370),  importanti per l’epoca (la costruzione del Tempio Malatestiano di Rimini371, di San Pietro), di fantasia (la costruzione di un palazzo rinascimentale372).
In essi, quasi a sintesi della complessa attività costruttiva, tutte le operazioni del cantiere sono svolte a piè d’opera. Tra queste anche la lavorazione degli elementi architettonici, dallo sbozzo alla posa in opera del manufatto. In effetti, però, non è ben chiaro quanto questa corrisponda alla realtà di Udine.

Nel caso di elementi di particolare pregio sembrerebbe plausibile una realizzazione in condizioni ottimali per l’artigiano all’interno della bottega, comunque prossima al cantiere, viste le ridotte dimensioni della città, e un trasporto successivo per la posa in opera
373.

Per quanto attiene, invece, la produzione corrente, la tesi potrebbe essere la stessa: lavorato in bottega, ivi montato preventivamente per la verifica della forma dei conci, smontato e trasportato in cantiere, il portale avrebbe lì visto la sola posa in opera, fatti salvi gli eventuali aggiustamenti del caso. Validerebbe questa idea il fatto che praticamente tutti i portali presentano alla base degli elementi di raccordo tra il terreno e il primo concio regolare, quasi a livellare il piano di posa per un manufatto realizzato in perfetta orizzontalità dei corsi, compresi gli elementi di base.

Il montaggio del portale era compito del muratore al quale lo scalpellino forniva assistenza. La messa in opera dei conci precedeva di poco quello della muratura retrostante, realizzata completamente in mattoni a sostegno del manufatto lapideo. La disposizione opportuna dei mattoni garantiva il sicuro ammorsamento, cui contribuiva la descritta irregolarità dei singoli blocchi. Sulle spalle in laterizio veniva impostato l’arco di sostegno della muratura al di sopra del varco, estremamente ribassato in caso di traverso ad architrave o a piattabanda.

Lo strapiombo sempre presente nelle murature di facciata degli edifici più importanti, rilevato nei sopralluoghi in qualche centimetro per metro, faceva sì che il portale venisse in parte ad appoggiarsi a queste.

Come già sottolineato, non è stato possibile verificare la presenza di collegamenti metallici non visibili anche se in un caso (palazzo Susanna di Prampero, via Stringer 5, L0427) il cedimento accoppiato di alcuni degli elementi della piattabanda fa pensare all’esistenza di un collegamento efficace.

Tra i conci, inoltre, venivano generalmente fissati, alle altezze opportune, i cardini dei portoni, realizzati in ferro. Soprattutto per quelli vicini al terreno, l’azione dell’umidità ha portato a un danneggiamento tale da suggerirne la rimozione e la sostituzione con elementi diversi ancorati alla retrostante muratura (è, il caso, ad esempio, del portale di palazzo Susanna-di Prampero, via Stringer 5, L0427).


dettagli: già palazzo Arcoloniani, via Carducci 1, Udine






























370
Per esempio Pieter Bruegel il Vecchio, Torre di Babele, 1563, Kunthistorisches Museum, Vienna, p.e. in S. Borghesi (a cura di), Kunthistorisches Museum, Vienna, 2004, pp. 82-85; Leandro Bassano (1557-1622), La costruzione della Torre di Babele, in H. Burns, Palladio’s Vicenza, in  J. Guillaume, Les chantiers de la Renaissance, 1991, p. 220.

371
Giovanni Bettini da Fano, Il Tempio Malatestiano di Rimini in costruzione, 1457-1468, Parigi, Biliothèque de l’Arsenal, in H. Millon, V. Magnano Lampugnani (a cura di), Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo, 1994, p. 81.

372
Piero di Cosimo, La costruzione di un palazzo, 1515-1520 ca., Sarasota, The John and Mable Ringling Museum of Art, in H. Millon, V. Magnano Lampugnani (a cura di), Rinascimento. Da Brunelleschi a Michelangelo, 1994, pp. 86-95.

373
Molto interessante, in tal senso, il documento inedito, segnalato in A. Guerra, I lavori di Bernardino da Morcote per la facciata e il campanile della chiesa di Santa Maria del Castello in Udine: nuovi documenti e acquisizioni, 1990, p. 89, relativo al portale della chiesa di Santa Maria del Castello: “ … per aver fato menar parti della porta tolta in chasa di mastro Bernardin …”.